La crisi dei rifugiati e i media allo Scij di Sestriere
L'accordo fra Bruxelles e Ankara è potuto entrare solo marginalmente nel dibattito: in pratica, chiunque raggiungerà la Grecia con sistemi illegali (e cioè, praticamente, tutti, dal momento che sistemi legali non esistono) verrà rispedito in Turchia. Il governo di Ankara, a sua volta, si impegna a ricollocare sul suolo europeo fino a 72mila persone con la qualifica di rifugiato, dei circa 2 milioni di siriani che vivono nel suo territorio. Il tutto, in cambio di 6 miliardi di euro e della riapertura del negoziato per l’ingresso in Europa. Tutto questo mentre la Turchia, vale la pena di ricordarlo, solo in parte aderisce alla Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati.
La discussione, impostata da una lunga relazione di Ricardo Gutierrez, giornalista belga, segretario generale della European Federation of Journalists, è stata piuttosto su come i media trattano il tema dei rifugiati. Generalmente male, con pochi inviati sul posto, notizie prese dalle agenzie e da freelance scarsamente pagati e tutelati, fino all’assurdo di alcuni giornali che titolano contro “L’invasione” già in corso e comunque prossima ventura.
Si è parlato anche del linguaggio più appropriato da usare e Gutierrez ha elogiato l’iniziativa della rete del Qatar Al Jazeera, che ha deciso di chiamare i migranti “refugee”, rifugiati, dal momento che l’80 per cento di chi abbandona il territorio nazionale è costretto a farlo perché fugge da un conflitto o da una persecuzione.
Contro questa iniziativa della tv del Qatar hanno parlato Federica Bianchi e Corrado Giustiniani, la prima ricordando che non si può dare la croce addosso a chi emigra invece per assicurarsi un futuro migliore. Il secondo ha cominciato col sottolineare come sia curioso, se non imbarazzante, per i giornalisti di Al Jazeera dare lezioni su come chiamare chi emigra e vivere in un paese, il Qatar, appunto, in cui non è stato accolto nemmeno un rifugiato siriano.
Secondo il Cir, Consiglio italiano dei rifugiati, sono profughi, ovvero richiedenti asilo (refugee, in italiano, si applica a chi ha già ottenuto lo status di rifugiato e anche per questo l’uso di quel termine è sbagliato), non l’80 per cento dei migranti ma il 60-65 per cento. Più in generale, secondo Giustiniani, più che un accanimento sui termini da usare, il giornalista oggi deve rivedere profondamente tutto il suo approccio al tema immigrazione, perché viviamo in un’epoca contrassegnata da fatti straordinari, e non ci sarà un ritorno indietro per moltissimi anni. Invece continuiamo a discriminare fatti e notizie, senza nemmeno accorgercene. Un solo esempio: un italiano che uccide due persone in un incidente stradale, non merita nemmeno una notizia a una colonna e comunque, se la merita, gli vengono risparmiate le generalità. Se l’automobilista killer è invece straniero, la notizia è collocata molto meglio, e la persona viene designata con nome, cognome e nazionalità.
Su questa linea, di cambiare l’approccio ai fatti, e non cavarsela solo con l’uso di alcune parole, si sono dichiarati d’accordo giornalisti di altri paesi dalla Serbia all’Irlanda. L'inviata della croata Nova tv, Barbara Strbac, che ha seguito a lungo per la sua testata la crisi dei rifugiati, ha raccontato che c’è un business che coinvolge molti europei, e fra questi i taxisti. Un passaggio oltre il confine della Macedonia può costare 30 euro per un cittadino normale e 500 o addirittura 1000 per chi fugge dal suo paese perché non ha altra chance.